venerdì 2 dicembre 2011

LA RELAZIONE D' AIUTO IN STRADA

La relazione in strada ha la caratteristicadi una “relazione a legame debole”;
è occasionale, non prevede di per sé alcuna continuità, alcun patto terapeutico,
è un’opportunità che può essere utilizzata o ignorata.
È proprio dalla scelta autonoma di aderire al contatto che deriva la significatività
intrinseca di un eventuale incontro.
L’utente, l’altro, assume il ruolo di soggetto attivo, definisce se stesso, cercando
il contatto: afferma la propria esistenza; analogamente l’operatore propone se stesso.
Lo scambio comunicativo in atto si connota come uno scambio intersoggettivo:
presenza e riconoscimento di due soggetti, di due persone nella loro
globalità. Nel frammento relazionale, entrambi i soggetti mettono in gioco
la totalità della loro persona; al di là del contenuto dello scambio comunicativo,
ciascuno dei due soggetti afferma la propria esistenza ed esiste in quel
determinato modo per l’altro; è se stesso con la sua storia; è quindi possibile
cogliere nel contatto relazionale breve e fragile quella specifica presenza umana
nel suo soggettivo modo di essere nel mondo, nel “qui e ora” della situazione.
Approccio fenomenologico dunque che attraverso una conoscenza intuitiva
e immediata consente l’incontro di due soggetti nella loro globalità; consente
di valorizzare il frammento relazionale per incontrare la totalità della
persona, per “cogliere l’essenza attraverso una presa di coscienza immediata” (Binswanger, 1990).
L’approccio fenomenologico si coniuga con la filosofia della Riduzione del danno ridefinendo
la relazione di aiuto, operatore/utente, come una relazione intersoggettiva propria delle okness.
Tipico delle psicoterapie umanistiche, secondo cui l’altro, il tossicodipendente, è riconosciuto
come persona rispetto alle sue esigenze; si dà fiducia al suo modo di vedere la realtà.
Tale visione positiva della persona e delle sue risorse sottolinea un approccio profondamente etico che richiama la teoria berniana dell’ “il paziente possiede una pulsione innata verso la salute, sia in senso mentale che fisico” (Berne, 1966).
In tale ottica, la relazione di aiuto si connota come atteggiamento consulenziale
che non impone scelte e modelli, ma è finalizzato a sviluppare consapevolezza, a riconoscere e potenziare risorse, e competenze presenti; atteggiamento consulenziale per facilitare scelte autonome, per recuperare il senso degli eventi; ancora dunque atteggiamento etico finalizzato a promuovere autonomia di pensiero e di azione; protagonismo anziché adattamento.
La relazione di aiuto nell’incontro in strada come occasione di attivare e
sperimentare una relazione intersoggettiva attorno a un
evitare rischi (buco pulito, sesso sicuro, overdose), prendersi cura
della propria salute, della propria vita; l’attenzione sul contenuto, ma soprattutto
sul processo: sul come si attua lo scambio relazionale.
L’incontro in strada breve, apparentemente povero e riduttivo, costituisce
un’esperienza relazionale forte, di riconoscimento reciproco, di riconoscimento
“dell’altro”, delle sue risorse e competenze; un’esperienza relazionale
correttiva rispetto a esperienze precedenti “di dipendenza”, di adattamento
o ribellione, a esperienze a volte antiche, a volte recenti e ripetitive
con i servizi, le istituzioni, con il mondo in generale.
Il contatto operatore/utente in strada può costituire un’esperienza relazionale
nuova, non assistenziale, un’esperienza significativa per percepire
una diversa immagine del sé, per sperimentare un diverso modo di essere nel mondo.
In tal senso, occorre mantenere una chiarezza metodologica negli interventi
dell’Unità di strada per salvaguardare la significatività della relazione operatore/utente.
L’Unità di strada è “un esserci” sulla strada, posizionarsi rispetto
a una specifica area di utenza. Il posizionamento esplicito su prevenzione Hiv, quindi su salute e vita, garantisce la possibilità di una relazione significativa
anche se “a legame debole”; definisce e struttura il
entrambi i soggetti da aspettative magiche e da svalutazioni infinite.

Parte prima "Il ruolo del counsellor in un mondo in rapida trasformazione" del Prof. Pio Scillogo

Siamo tutti cittadini planetari testimoni di trasformazioni che annullano tradizio-ni, sradicano valori, sconvolgono strategie di sopravvivenza, robotizzano la persona.
Il counsellor affronta questa realtà e diventa mediatore di significato e di diritto, guida nell’intercettare l’oppressione del potere economico e corporativistico dei pochi e guida nel promuovere la giustizia e lo fa non dalla prospettiva di ristrutturare la persona-lità, ma guardando all’orizzionte dell’oppressione che viene dall’esterno della persona, da un contesto che viola il diritto di vivere umanamente e nei confronti del quale si pone in termini di assertiva dignità.
Come cittadini planetari assistiamo alla graduale scomparsa dei confini geografi-ci, che non contengono più le culture e i popoli: la facilità degli spostamenti interconti-nentali permettono una osmosi contro cui poco valgono gli sbarramenti fisici agli aero-porti, alle stazioni ferroviarie di confine e ai porti di mare. Ma al di là degli spostamenti fisici siamo attori in una vasta rete di comunicazione planetaria mediata dai telefonini, da internet, dalla televisione satellitare, che sono ben più potenti degli uccelli migratori che si possono non abbattere con la caccia e di altri volatili che si possono isolare.
Di fronte a livelli così estesi di innovazione e di caduta di confini che prima modula-vano i ritmi di cambiamento, occorrono nuove competenze, nuovi saper fare, nuove ca-pacità assertive per progettare, scegliere obiettivi, scoprire processi, aprire orizzonti e inventare confini di contenimento. Si tratta di competenze che potenziano la libertà re-sponsabile. Essa non ha come caratteristica il mettersi sulla difensiva, ma di affrontare le nuove sfide in posizione di attacco. La libertà responsabile non cerca di arretrare gli stili di vita di qualche secolo per conservarli imbalsamati, ma crea nuove soluzioni sulle radici di quanto è già stato inventato, scoperto e conquistato.
Il counsellor è un mediatore che aiuta a inventare, scoprire e mettere a punto strumenti di ricca gestione dei contesti di vita nel processo di continua trasformazione del mondo che circonda la persona.
In tale contesto ci sono alcuni ambiti privilegiati verso i quali il counselling si muove a livello internazionale.
Diverse forze hanno contribuito allo sviluppo e alla differenziazione interna del counselling. Tra esse hanno assunto particolare importanza le trasformazioni culturali alle quali è stato accennato, gli interventi legislativi per la psicoterapia, gli sradicamenti dovuti a guerre e disastri naturali, le transizioni di vita e le nuove acculturazioni (transi-zioni scolastiche, le transizioni dalla coppia alla famiglia, dall’adolescenza alla vita a-dulta, dall’università all’inserimento nelle forze di lavoro, dalla vita di single alla vita di coppia, dalla vita di coppia alla separazione, dalla vita di lavoro al pensionamen-to);hanno assuntoimportanza le nuove visibilità di gruppi minoritari quali le donne, gli anziani, i disabili, i bambini e gli adolescenti, l’afflusso di immigrati e le migrazioni all’interno dei paesi, le ricerche che hanno evidenziato la consistenza della presenza di gruppi ad orientamento sessuale non tradizionale come i gay, le lesbiche e i transessua-li; l’impatto delle guerre, della violenza organizzata, delle epidemie, come l’AIDS, che minano alla base intiere popolazioni ed economie.
Tutte queste condizioni richiedono guida e informazioni per l’inserimento nella vita, strutturazione della realtà esterna, reperimento e coordinamento di risorse, invii ad agenzie, istituzioni, professionisti specializzati. In quasi tutte le circostanze è necessario un lavoro di collaborazione di gruppo tra diverse professionalità: psicoterapeuti, medici, avvocati, assistenti sociali e quanto altro.
In tutti i contesti il counsellor ha bisogno di competenze comunicative, capacità gestire le fonti di informazione nel mondo di oggi (internet, telefonini, televisione, ecc…). Il counsellor applica tali competenze nell’affrontare i diritti e doveri nelle situa-zioni di lavoro, nell’inserimento culturale dei migranti, nazionali e continentali, la vio-lenza individuale e di gruppo (mobbing, abuso infantile, delinquenza minorile), Questi sono gli ambiti emergenti nei quali il counsellor si ferra per esercitare la sua professio-nalità senza invadere il campo riservato allo psicologo e allo psicoterapeuta.
In molte situazioni vengono dallo psicoterapeuta persone che di fatto hanno bisogno del counsellor, perché le difficoltà che portano non derivano da una particolare condi-zione psicologica della persona, ma dalle circostanze nelle quali essa vive e la difficoltà sta nelle strategie operative anziché nella condizione psicologica del cliente. Talora la persona ha gli ingredienti necessari per affrontare le difficoltà incombenti, ma non sa coordinarle, perché è difficile dipanare le complessità di un contesto nuovo difficile an-che per le persone in ottime condizioni psicologiche.
Venne un giorno una persona depressa e indispettita perché tutti i giorni doveva prendere una medicina a causa di carenze di iodio e sapeva che era una condizione che sarebbe durata tutta la vita. Voleva fare un’ora di terapia, ma le fu chiesto: senta, l’altro ieri ha fatto colazione? Sì. E ieri, anche ieri ha fatto colazione? Sì. Allora suppongo che l’avrà fatta anche oggi. Rispose: Sì, ma non capisco. Risposi,comprendo…e domani pensa che farà nuovamente colazione? Suppongo di sì. Allora sorridendo aggiunsi: Ma non si è ancora stancata di fare colazione? A quel punto la persona, che era molto acuta, rispose: ho capito, ma certo è una nuova colazione. Vero risposi e le augurai una buona continuazione delle sue colazioni con una piccola aggiunta, visto che non aveva inten-zione di smetterle. Probabilmente pochi sararanno tentati di dire che ho fatto quattro minuti di terapia. Certo, ho chiesto alla persona di riflettere su un fatto esterno che en-trava nell’organizzazione della sua vita, finché lei stessa scoprì che un ingrediente nuo-vo nella colazione, molto più piccolo di una fetta di pane in più da preparare, non le stravolgeva la sua abitudine ripetitiva e gratificante di fare colazione; valevala pena far-lo per mantenersi in buona salute.
Per prendere un esempio dal counselling pastorale, un giorno venne una donna che era in un gruppo abbastanza settario perché aveva un conduttore che indottrinava sulla nullità della persona. Il problema per lei era che era nessuno, che era una schifezza. Le chiesi: ma lei è battezzata? Sì. Allora sei figlia di Dio. Una figlia di Dio libera. Sì, sì, certo. Dissi: è’ bello non solo essere considerati figli, ma essere davvero figli di Dio. Certo che è bello. Allora le figlie di Dio sono schifezze? Rimase perplessa e io aggiun-si: sei davvero figlia di Dio, altrochè schifezza. Abbozzò un sorriso.
Qualcuno chiama questo psicoterapia, io lo chiamo, in questo contesto, un piccolo esempio di counselling pastorale.
Alle volte le persone devono proprio imparare a guardarsi attorno, anche a guardarsi un pochetto dentro, perché il dentro conscio è un tipo di contesto. Ho lasciato allo psico-logo il lavoro ulteriore della donna di cui ho parlato, perché conclusi che era andata a cercare un gruppo che la confermava nella sua schiavitù ai normativi eccessivi subiti e ciò facilmente è un segno di patologia che va gestita dallo psicologo..

Genetica e tossicodipendenza in breve

Perché alcune persone diventano dipendenti da una o più sostanze mentre altre non lo fanno?
Studi sui gemelli fanno ritenere che oltre il 50% della responsabilità di tale differenza possa risiedere in fattori genetici. Riconoscere questi fattori di rischio appare, quindi, di grande rilevanza sia in termini di comprensione dei fenomeni biologici che sostengono questi comportamenti sia per sviluppare farmaci che possano interferire con i meccanismi molecolari, per prevenire o curare le dipendenze.
La maggior parte degli studi sono stati effettuati per l’alcolismo
ma influenza genetica è stata dimostrata anche per la suscettibilità
alla dipendenza da tabacco, oppioidi, cannabis e altri farmaci psicoattivi.
Dagli studi di genetica classica (famiglie, gemelli), più recentemente si è passati ad evidenze di genetica molecolare.
Si ritiene che la genetica delle dipendenze vada inclusa nel capitolo dell’eredità multifattoriale e poligenica: un meccanismo di interazione di fattori genetici, magari per la suscettibilità data da certo numero di geni, ciascuno con un piccolo effetto (poligenica), e di fattori ambientali.
In questo ambito, l’interesse si è focalizzato maggiormente sui polimorfismi di vari recettori del sistema nervoso centrale. Non si parla di genetica mendeliana classica, in cui mutazioni ad un singolo gene condizionano l’emergere, pur con variabilità e espressività differenti, di quadri patologici definiti.
Nell’ambito della genetica multifattoriale abbiamo, piuttosto, a che fare con variabili genetiche normalmente presenti nella popolazione (polimorfismi),
Ne deriva, che, anche se cominciano a chiarirsi i meccanismi genetici,
 Cenni di tratti complessi e variabilità
Nel DNA umano sono presenti circa 30.000 geni, in doppia copia (paterna e materna): tutti o quasi tutti, in genere, funzionali, ma spesso con differenze che, per quanto piccole, possono comportano lievi variazioni nella loro struttura o nella loro regolazione. Non parliamo di variazioni (mutazioni) francamente patogenetiche ma di leggere differenze, di per se assolutamente tollerabili, presenti in percentuali variabili nelle popolazioni umane normali, note come polimorfismi genetici.
Ogni singola variazione, infatti, di per se non produce effetti rilevabili. Un effetto maggiore, eventualmente, può essere esercitato dalla combinazione di polimorfismi di molti geni.
La presenza di polimorfismi all'interno della popolazione "normale" è alla base delle differenze
osservate nei tratti complessi tra individui e popolazioni differenti (peso, altezza, pressione arteriosa, comportamenti etc.).
Questa componente di variabilità geneticamente determinata, da un lato, può influenzare la capacità ed il modo che ogni singolo individuo possiede nell’affrontare gli stimoli che provengono dall’esterno (fisici, chimici, etc.), dall’altro, integrandosi con la componente di variabilità ambientale, realizza diversità evidenti e, spesso, misurabili, in tratti e caratteri riconoscibili.
Molte di queste differenze, quindi, incluse le differenti risposte all’assunzione di farmaci e sostanze, vedono nella variabilità genetica un elemento di rilievo, per quanto non unico.
In questo senso, fattori genetici insieme a fattori ambientali
possono infatti influenzare la suscettibilità alle dipendenze.
Ereditarietà di una dipendenza
La maggior parte degli studi che hanno condotto a queste conclusioni sono stati effettuati per l’alcolismo, tuttavia, un’influenza genetica è stata dimostrata anche per quanto riguarda la suscettibilità alle dipendenze da tabacco, oppioidi, cannabis, stimolanti e altri farmaci psicoattivi. Evidenze in questo senso sono emerse sia da studi di genetica classica, attraverso analisi di famiglie e di gemelli, sia da più recenti evidenze di genetica molecolare. Studi sulla dipendenza da alcol, tabacco ed altre sostanze, suggeriscono
che i fattori genetici possano contribuire tra il 25% ed il 60% (coefficiente
di ereditarietà di un tratto) nel sostenerle.
E’ noto, infatti, come l’alcolismo possa essere riscontrato come tratto familiare, con ben caratterizzati fattori genetici di suscettibilità che prescindono dall’influenza ambientale.
Studi condotti su figli adottivi hanno infatti documentato una maggior incidenza di alcolismo in soggetti i cui genitori biologici erano alcolisti (mentre non lo erano i genitori adottivi) rispetto a soggetti i cui genitori adottivi erano alcolisti (ma non lo erano i genitori biologici).
Si ritiene che la genetica possa contribuire all’alcolismo per circa il 50% nei maschi e 25% nelle
femmine (Reich T et al. 1998).
Lo stesso si può dire per la dipendenza dal fumo: la stima corrente pone il peso relativo della genetica intorno al 28-84% dei fattori che contribuiscono a promuovere e/o mantenere questo comportamento (Hamilton AS et al. 2006).
La nicotina attua i suoi effetti tramite legame con specifici recettori presenti nel sistema nervoso centrale (nAChRs): l’impatto di questo legame con alcuni sistemi di neurotrasmissione (dopamina, serotonina, GABA) ed i geni che codificano per gli elementi che mediano la neurotrasmissione sono all’attenzione dei ricercatori.
Si parla del 45%, invece, come possibile coefficiente di ereditarietà nella suscettibilità al consumo e/o dipendenza da varie sostanze, inclusi la cannabinoidi, oppiacei, stimolanti, sedativi e psichedelici.
Infine, la stessa tossicità delle diverse sostanze non è uguale in individui differenti.
Fattori genetici influenzano la differente suscettibilità ai danni epatici nel caso dell’alcol così come un differente ambiente genetico condiziona la maggiore o minore probabilità di insorgenza di tumori nei fumatori. Lo stesso sembra succedere con l’assunzione di farmaci psicoattivi, con la maggiore o minore suscettibilità individuale ad effetti tossici dopo somministrazione.
Più recentemente, tecniche di linkage ed associazione genetica, hanno permesso di identificare
alcune regioni del genoma che sembrano maggiormente implicate in queste predisposizioni, sottolineando come le dipendenze siano comportamenti complessi, influenzati sia dall’ambiente che dai geni, con partecipazione di più geni alla suscettibilità, complessivamente con effetti additivi non trascurabili, pur con modesto contributo individuale delle singole variazioni. La genetica di un individuo influenza l’attività dei farmaci, incluso il rischio di dipendenza.
La neurotrasmissione
Dati sperimentali suggeriscono che assetti genetici particolari, relativi all’espressione di molecole attive nelle aree cerebrali coinvolte nei processi motivazionali, possono essere responsabili di varie forme di dipendenza. Tra questi, e a titolo di esempio, uno dei sistemi che ha ricevuto maggiore attenzione nello studio dei comportamenti patologici è il sistema dopaminergico della neurotrasmissione.
La dopamina, infatti, implicata nei circuiti di ricompensa, e agendo attraverso recettori, provoca il rilascio della serotonina che a sua volta stimola le encefaline a livello ipotalamico. Una forma polimorfica (un allele) del gene che codifica per il recettore DRD2 della dopamina (allele A1) sembra associata a ridotta efficienza di questo sistema, una condizione a sua volta associata ad alcolismo e tabagismo.
Si ritiene quindi che gli individui che portano questo allele possano risultare predisposti all’assunzione di sostanze psicoattive, perché maggiormente vulnerabili di fronte ad eventi stressanti a causa di un sistema di gratificazione deficitario che tentano di compensare forzando il tono dopaminergico, introducendo sostanze che stimolano il rilascio di dopamina (Cohen et al., 2007).
Si tratta di meccanismi molecolari che vengono valorizzati nel tentativo di spiegare le basi biologiche
dei comportamenti di abuso per alcol, nicotina o sostanze psicoattive, ma che correlano con forme di dipendenza anche molto diverse, come il gioco patologico (gambling) che si ritiene abbia una componente genetica intorno al 14-46% (Eisen et al., 2001);
 L’epigenetica
L’assunzione continuativa di sostanze psicoattive si associa ad adattamenti dei meccanismi cellulari, a loro volta imputabili a cambiamenti nell’espressione di centinaia di geni, con differenze tra tessuto e tessuto o, addirittura, nel caso del cervello, da regione a regione. Si ritiene che alcuni di questi cambiamenti possano essere alla base dell’instaurazione della tolleranza e della dipendenza, interferendo con i normali meccanismi di apprendimento e memoria.
Recenti ricerche, condotte su ratti assuefatti alla cocaina, rivelano che il desiderio di assumerla dipende dall'attivazione dell'enzima ERK (signal-regulated kinase) e che, in caso di astinenza, l'inibizione dell'ERK permetta di 'cancellare' questa dipendenza. (Lu L. et al. 2005). Si ipotizza che anche nell'uomo il coinvolgimento di ERK, che controlla i processi di memorizzazione, possa rendere difficile "dimenticare" la cocaina attraverso alterazioni della neuroplasticità e della interconnessività sinaptica e, come tale, possa essere coinvolta anche in altre dipendenze, come quelle alimentari. Diversi studi indicano inoltre, che, dopo la disintossicazione, la dipendenza psicologica dalla cocaina tenda ad aumentare con il passare del tempo. La proteina ERK potrebbe giocare un ruolo in questo circuito perché sembra responsabile della memorizzazione di elementi associati ad una vicenda, e potrebbe rafforzare la capacità condizionante di elementi ambientali che rimandano all’esperienza dell’assunzione del farmaco come stato di soddisfazione.
In questo ambito, più che di genetica in senso stretto, si parla di epigenetica (epi = circa + genetica), la scienza che si occupa cioè dei meccanismi che modificano o modulano in modo più o meno stabile il prodotto dei geni
In accordo, le ricerche più recenti suggeriscono che l’assunzione continuativa di farmaci psicoattivi
senza mutare il DNA di per sè. possa riscrivere l’epigenetica delle cellule del cervello, rimodulando i circuiti di apprendimento e memoria a lungo termine, alterando l’espressione dei geni e, in ultima istanza, producendo risposte comportamentali correlate (la dipendenza). Questa attività di rimodulazione dell’espressione genica sembra si possa produrre attraverso alterazioni di struttura della cromatina (chromatin remodeling), ad esempio, attraverso l’attivazione del gene Delta-FosB che a sua volta attiva enzimi che provocano l’acetilazione di proteine associate al DNA (istoni).
un quadro che lega insieme squilibri del principale sistema biologico della gratificazione con alterazioni della soglia del piacere e della analgesia a suscettibilità alle dipendenze prese, nel loro complesso, come comportamento.
che, singolarmente, diventano fattori di rischio quando coesistono con fattori ambientali predisponenti (cultura, collocazione ambientale e familiare, disponibilità della sostanza etc.) e/o per co-presenza di altri, differenti, fattori biologici di suscettibilità (altre variabili genetiche di suscettibilità, stato di salute psicofisica, etc.). le dipendenze non sono ereditabili in senso stretto né è possibile predire il rischio di ereditare la suscettibilità. Allo stato attuale, riteniamo che è possibile ereditare una predisposizione e che questa può essere legata a variabili genetiche di strutture implicate nella neurotrasmissione.

martedì 18 ottobre 2011

Antonella Lattanzi, ecco l'erede di Roberto Saviano

Lunedì, 12 aprile 2010 - 13:30:00

di Antonio Prudenzano
devozione
LA COPERTINA

"Devozione",
 
dilaniante romanzo-reportage dell'esordiente 30enne Antonella Lattanzi (laurea in lettere moderne, oggi collabora con varie case editrici in veste di traduttrice, editor e correttrice di bozze), ha il merito di raccontare un inferno invisibile ai nostri occhi accecati e corrotti dalla superficialità:
quello dei "nuovi" tossici (le overdose sono in diminuzione, ma le epatiti C sono in drammatico aumento...). Sì perché la droga in Italia non si è mai data alla fuga. Al contrario, di anno in anno ha allargato i suoi orizzonti e scoperto nuovi target (dai pre-adolescenti ai manager). "Devozione" racconta il ritorno (quantomeno mediatico) dell'eroina ("In realtà mai scomparsa", ci ha spiegato l'autrice) e la diffusione delle nuove sostanze stupefacenti. Lo fa dall'interno di un limbo di giovani alla disperata ricerca della felicità, meta irraggiungibile, in un viaggio conturbante al termine dell'autodistruzione, che ha tre protagonisti principali (Nikita e Pablo, coppia di eroinomani, e Annette, bambolina francese vittima di un assurdo tentativo di rapimento), e una serie di comparse incapaci di liberarsi dalla dipendenza. Come Roberto Saviano, Antonella Lattanzi per scrivere il suo libro ha prima vissuto sulla propria pelle la realtà drammatica che ha poi messo su carta. Nell'intervista rilasciata ad Affaritaliani.it, l'autrice ammette di aver adottato lo stesso metodo e lo stesso approccio alla scrittura dell'autore di "Gomorra", di certo il meno comodo, e parla di quella che definisce una personale "fascinazione" per l'eroina, scoperta da ragazzina a Bari a metà anni '90...
antonella lattanzi einaudi devozione
Antonella Lattanzi

Per scrivere "Devozioni" ha frequentato per anni i Sert (fingendosi tossica), i punti di ritrovo dei drogati del terzo millennio, le piazze dello spaccio, le comunità, in un inevitabile processo di immedesimazione con i giovani protagonisti del suo libro. Cosa l'ha spinto a farlo?

"La verità è che ho sempre voluto raccontare questa storia. Sin da piccola amavo scrivere, e sin da ragazzina devo ammettere di aver subito una fascinazione per la droga e l'eroina in particolare. Non ho però mai fatto uso di sostanze stupefacenti, meglio specificarlo. La mia droga è infatti sempre stata la scrittura. La passione per la letteratura mi ha salvato dalla droga e dalla morte ...".
E com'è nata questa sua pericolosa 'fascinazione' per l'eroina?
"Nella mia adolescenza a Bari con i miei coetanei mi ritrovavano in due piazze sempre affollate. C'erano i punk, i metallari, i discotecari e così via. E c'erano anche i tossicodipendenti. All'inizio, tutti i gruppi, indistintamente, guardavano ai drogati come a degli sfigati. Poi, i miei occhi da adolescente hanno assistito a un cambiamento: a metà anni '90 gli eroinomani sono improvvisamente diventatati trendy. E così, tanti adolescenti, senza più badare alle differenze di gruppo, andavano ad acquistare da loro la droga. L'eroina ha unito tipologie di ragazzi sulla carta completamente diverse. Quando negli ultimi anni ho studiato e approfondito il tema per scrivere questo libro, ho scoperto che in quel periodo questa trasformazione non è avvenuta solo a Bari, ma anche nel resto d'Italia".
Oggi si parla di un ritorno dell'eroina. E' davvero così?
"L'eroina non se n'è mai andata. Semplicemente si è abbassata l'attenzione mediatica. Il picco dei morti per overdose c'è stato nel 1996, furono circa 1500. Oggi, grazie ai Sert e alla somministrazione del metadone, gli eroinomani possono condurre una vita più normale, e questo è l'aspetto positivo. Ma ce n'è anche uno negativo: il metadone crea una dipendenza fisica più lunga dell'eroina, 8 giorni invece di 3. E poi, rispetto al passato, oggi esiste una vera e propria silenziosa epidemia di epatite C".
Lei ha avuto la possibilità di entrare in contatto con decine di tossicodipendenti. A nessuno ha detto la verità, e cioè che non era una drogata come loro?
"Solo a una ragazza con cui sono entrata in particolare intimità. Con lei si è creato un rapporto talmente profondo che non ho potuto mentirle".
Ma ha capito cosa spinge questi ragazzi a drogarsi?
"La loro non è quasi mai una scelta autodistruttiva. All'inizio anch'io ero piena di pregiudizi, e pensavo ai tossici come a dei morti viventi. Ma chi si fa di eroina non cerca la morte. L'obiettivo è liberarsi dal dolore. Gli eroinomani sono ipersensibili e incapaci di affrontare i problemi".
La sua scelta di immergersi nella realtà della droga per poi raccontarla è paragonabile a quella di Roberto Saviano...
"Il paragone è un po' forte, ma regge. Certo, va precisato che ci siamo occupati di temi diversi e  che 'Gomorra' è molto più reportage del mio libro, che è soprattutto un romanzo. E' però vero che entrambi per scrivere abbiamo avuto bisogno di scoprire sulla nostra pelle il mondo che poi abbiamo messo su carta".
Antonella Lattanzi, nel suo futuro cosa c'é?
"Sicuramente i libri. Sto già pensando al secondo. Voglio cambiare tema. Forse parlerò del rapporto madre-figlia

giovedì 6 ottobre 2011

LA DIPENDENZA DA EROINA

Dipendenza da Eroina

L'eroina è un potente analgesico che riduce l'attività cerebrale, producendo una sensazione di rilassamento, sicurezza e benessere. Agli inizi del secolo, l'eroina veniva usata in medicina come sedativo e anestetico, ma allora i medici non conoscevano il suo potenziale in termini di dipendenza. Quando si scoprirono i suoi effetti dannosi, l'uso della sostanza venne bandito. Attualmente, l'eroina non presenta molte applicazioni cliniche legittime, poiché i sedativi e gli anestetici sintetici hanno gradualmente sostituito l'uso dei composti oppiacei.

L'eroina pura si presenta sotto forma di polvere bianca, dal sapore amaro, che viene prodotta dalla linfa del papavero. L'eroina illegale può variare da un colore bianco al marrone scuro, a causa delle impurità residue del processo produttivo o degli adulteranti. Generalmente viene disciolta in acqua e iniettata, ma può essere anche fumata, miscelandola al tabacco, o riscaldata e inalata attraverso le esalazioni, o ancora ingerita.

Fino a non molto tempo fa, gli eroinomani assumevano l'eroina in forma impura, iniettandola per endovena o intramuscolo. Tuttavia, la disponibilità di quantità maggiori di eroina pura fa sì che molti di coloro che attualmente ne fanno uso la inalino o la fumino per ottenere l'effetto desiderato. Ciò significa che persone che non avrebbero mai provato l'eroina, perché avrebbero dovuto iniettarsela, potrebbero ora sperimentarla.

L'eroina è l'oppiaceo più potente. Appena iniettata, suscita uno stato di rilassamento e di benessere. Il dolore fisico ed emotivo è completamente annullato. Una delle ragioni per cui viene ancora impiegata come sostanza d'abuso è che induce una sensazione di sicurezza e tranquillità.

Gli effetti collaterali dovuti all'assunzione di eroina (particolarmente nei neofiti) comprendono irrequietezza, nausea e vomito; si alternano stati di vigilanza e stati di sonnolenza.

L'overdose è il rischio più prevedibile per chi assume eroina. Il fenomeno si verifica con qualsiasi modalità di assunzione, sebbene l'iniezione endovenosa sia quella più pericolosa. L'eroina deprime il sistema nervoso centrale e inibisce le funzioni vitali, quali le attività intellettive superiori, la respirazione e la frequenza cardiaca. L'assunzione di una dose elevata (specialmente se l'eroina è pura) può provocare uno stato comatoso, caratterizzato da un calo della temperatura corporea e da rigidità. La respirazione rallenta e diventa intermittente e può sopraggiungere la morte.

Gli altri rischi associati all'uso di eroina dipendono essenzialmente dalle modalità utilizzate per l'assunzione. Lo scambio di siringhe porta il rischio di contrarre infezioni quali HIV ed epatite B o C, che sono diffuse tra i tossicodipendenti che si iniettano l'eroina. Un altro pericolo è rappresentato dall'assunzione di eroina in associazione con altre sostanze. Alcol, benzodiazepine e barbiturici sono particolarmente pericolosi, in quanto agiscono tutti deprimendo il sistema nervoso centrale. Dato che anche l'eroina ha la stessa azione, l'effetto dell'associazione di queste sostanze può deprimere la respirazione o la frequenza cardiaca al punto tale da causare insufficienza respiratoria e cardiaca.

L'assunzione regolare di eroina determina tolleranza (indipendentemente dalla modalità di assunzione). Di conseguenza la persona tende ad aumentare gradualmente le dosi per ottenere gli stessi effetti iniziali. La tolleranza può svilupparsi molto rapidamente (nell'arco di alcune settimane) e continua ad aumentare se l'assunzione di eroina è regolare. La tolleranza diminuisce interrompendo l'uso di eroina, ma se si torna ad assumerla alle stesse quantità di prima, facilmente si manifesta una "overdose".

Interrompere l'assunzione della droga può essere difficile soprattutto a causa della gravità dei sintomi da astinenza. L'astinenza può indurre sintomi quali diarrea cronica, crampi muscolari, vomito, insonnia, sudorazione eccessiva, ansia e tremori. La prospettiva di questi sintomi scoraggia molti tossicodipendenti. Una volta che l'astinenza fisica viene superata, si continua a provare per molto tempo il desiderio spasmodico di assumere la droga, e le ricadute sono frequenti. In genere, per poter smettere, gli eroinomani hanno bisogno di una forte rete di assistenza che li aiuti a superare il bisogno spasmodico di droga.

FONTE:
NIDA - National Institute on Drug Abuse - USA

lunedì 3 ottobre 2011

INTERVISTA A RICCARDO ZERBETTO

Come si può definire attualmente il counseling?Anche se tentare una definizione per il counseling rappresenta una “soluzione impossibile”, come Pio Scilligo ha titolato la sua lettura magistrale in apertura ad un Congresso promosso nell’ottobre 2005 dal Coordinamento Nazionale Counselor Professionisti (CNCP), che raccoglie circa 70 scuole riconosciute dal Ministero dell’Istruzione Università Ricerca (MIUR) ed aderenti al Coordinamento Nazionale delle Scuole Private di Psicoterapia (CNSP), si può concordare sul fatto che con il termine di counseling ci si riferisce ad una forma della “relazione di aiuto” che si colloca a ponte tra un intervento di generico “supporto” psicologico ed uno più professionalizzato di psicoterapia. Rispetto a quest’ultima, in particolare ci sono alcuni elementi distintivi come:
  • una più definita messa a punto degli obiettivi realisticamente raggiungibili valutando anche i limiti connessi a situazioni più impegnative di quanto realisticamente è possibile affrontare;
  • una contrattualità terapeutica che coinvolga attivamente l’utente nel processo della crescita personale e della socializzazione;
  • un modello integrativo di intervento che faccia riferimento sia ad aspetti “dinamici” di tipo psico-emozionale che ad aspetti più propriamente relazionali e con il “mondo esterno”;
  • una minore enfasi sugli aspetti transferali sul singolo terapeuta in vista di un allargamento ad una gamma più ampia di possibilità concrete di intervento e di mobilitazione delle risorse.
Come si pone il counseling nei confronti dell’intervento psicoterapeutico?
Nella tradizione del counseling  che, ricordiamo, si è originato nei paesi anglosassoni come forma di intervento spesso collegato all’orientamento sia in ambito scolastico che lavorativo o nel paesi dell’Est europeo come intervento nei confronti della coppia e della famiglia in sostituzione di analoghe attività in ambito pastorale- viene spesso indicata l’area di riferimento nella quale si applica.
Tra queste le più significative sono:
quella scolastica che si propone di incrementare le competenze del “docente referente per la salute” già previste dai Centri di Informazione e Consulenza (CIC) nella scuola,
socio-sanitaria (importanti le aree applicative per i servizi di trapianto d’organo, dialisi, chirurgia estetica e mutilante, patologie terminali, dipendenze e AIDS, eccetera),
familiare (non dimentichiamo la formazione in terapia relazionale ricevuta da molte figure professionali prima della legge sulla psicoterapia e che si troverebbero altrimenti nell’impossibilità di mentre a frutto le competenze apprese), eccetera.

Al di là di possibili aspetti competitivi tra le diverse professioni, è dato rilevare esperienze interessanti di utile integrazione e sinergia come quelle in cui uno psicoterapeuta affida al counselor alcuni casi che decide di non seguire (per limiti di tempo o indicazione specifica ad interventi più settoriali e mirati) e -per converso- di riferimento a psicoterapeuti da parte di counselor allorché la problematica si manifesta come clinicamente impegnativa e allorché il paziente si sente più pronto ad affrontare un lavoro più approfondito.

Laddove l’intervento del counselor si esprime al di fuori di un ambito istituzionale e quindi in un setting individuale, familiare o di gruppo ritengo che sia d’obbligo l’impegno alla supervisione con psicoterapeuti in grado di fornire un sostegno sugli aspetti diagnostici e di accompagnamento su processi più impegnativi.

Non bisogna dimenticare infatti che, al di là della norma generalmente accettata che prevede l’esclusione di interventi di counseling con persone affette da patologie più marcate, tali situazioni possono comunque presentarsi ponendo quesiti di non facile soluzione.

Il paziente, ad esempio, può insistere per rimanere in trattamento con il counselor e rifiutare un invio o, addirittura, preferire questo tipo di approccio ad uno orientato in senso più esplicitamente medico-psichiatrico o psicologico.

Chi può a suo avviso svolgere counseling e di quale tipo di formazione necessita?
Coerentemente alla tradizione anglosassone che riconosce maggior importanza alle competenze pragmatico-operative che teoriche, la Associazione Europea di Counseling (EAC) non richiede una laurea anche se la stessa, anche sotto forma di laurea breve, viene spesso richiesta da alcune organizzazioni nazionali.