- una più definita messa a punto degli obiettivi realisticamente raggiungibili valutando anche i limiti connessi a situazioni più impegnative di quanto realisticamente è possibile affrontare;
- una contrattualità terapeutica che coinvolga attivamente l’utente nel processo della crescita personale e della socializzazione;
- un modello integrativo di intervento che faccia riferimento sia ad aspetti “dinamici” di tipo psico-emozionale che ad aspetti più propriamente relazionali e con il “mondo esterno”;
- una minore enfasi sugli aspetti transferali sul singolo terapeuta in vista di un allargamento ad una gamma più ampia di possibilità concrete di intervento e di mobilitazione delle risorse.
Nella tradizione del counseling che, ricordiamo, si è originato nei paesi anglosassoni come forma di intervento spesso collegato all’orientamento sia in ambito scolastico che lavorativo o nel paesi dell’Est europeo come intervento nei confronti della coppia e della famiglia in sostituzione di analoghe attività in ambito pastorale- viene spesso indicata l’area di riferimento nella quale si applica.
Tra queste le più significative sono:
quella scolastica che si propone di incrementare le competenze del “docente referente per la salute” già previste dai Centri di Informazione e Consulenza (CIC) nella scuola,
socio-sanitaria (importanti le aree applicative per i servizi di trapianto d’organo, dialisi, chirurgia estetica e mutilante, patologie terminali, dipendenze e AIDS, eccetera),
familiare (non dimentichiamo la formazione in terapia relazionale ricevuta da molte figure professionali prima della legge sulla psicoterapia e che si troverebbero altrimenti nell’impossibilità di mentre a frutto le competenze apprese), eccetera.
Al di là di possibili aspetti competitivi tra le diverse professioni, è dato rilevare esperienze interessanti di utile integrazione e sinergia come quelle in cui uno psicoterapeuta affida al counselor alcuni casi che decide di non seguire (per limiti di tempo o indicazione specifica ad interventi più settoriali e mirati) e -per converso- di riferimento a psicoterapeuti da parte di counselor allorché la problematica si manifesta come clinicamente impegnativa e allorché il paziente si sente più pronto ad affrontare un lavoro più approfondito.
Laddove l’intervento del counselor si esprime al di fuori di un ambito istituzionale e quindi in un setting individuale, familiare o di gruppo ritengo che sia d’obbligo l’impegno alla supervisione con psicoterapeuti in grado di fornire un sostegno sugli aspetti diagnostici e di accompagnamento su processi più impegnativi.
Non bisogna dimenticare infatti che, al di là della norma generalmente accettata che prevede l’esclusione di interventi di counseling con persone affette da patologie più marcate, tali situazioni possono comunque presentarsi ponendo quesiti di non facile soluzione.
Il paziente, ad esempio, può insistere per rimanere in trattamento con il counselor e rifiutare un invio o, addirittura, preferire questo tipo di approccio ad uno orientato in senso più esplicitamente medico-psichiatrico o psicologico.
Chi può a suo avviso svolgere counseling e di quale tipo di formazione necessita?
Coerentemente alla tradizione anglosassone che riconosce maggior importanza alle competenze pragmatico-operative che teoriche, la Associazione Europea di Counseling (EAC) non richiede una laurea anche se la stessa, anche sotto forma di laurea breve, viene spesso richiesta da alcune organizzazioni nazionali.
Nessun commento:
Posta un commento